Mosso dal desiderio di toccare con mano le opere di Michelangelo, Raul Ceville giunge da Panama, suo paese natale, a Firenze, sulle tracce del Buonarroti.
Questo desiderio pesò molto sulla sua scelta, perché lui, scultore alle prime armi, voleva studiare nella culla del Rinascimento ed analizzare dal vero i suoi numerosi capolavori. In questa scelta fu aiutato dal suo primo maestro che in patria lo introdusse all’arte europea ed in special modo in quella catalana e fiorentina, da lui ben conosciute, perché durante un suo tour europeo aveva soggiornato anche a Barcellona e a Firenze.
Raul arrivò nella nostra città nel 1946, dopo un lungo viaggio via mare, grazie a una borsa di studio che gli permise di fare vari tentativi in campo artistico. Tentativi che inizialmente furono costellati da dubbi, incertezze e ripensamenti, cosa del tutto naturale per un giovane che decide di abbracciare la disciplina artistica, così difficile e soggettiva, che obbliga ad un percorso solitario ed autonomo nel tentativo di trovare uno stile valido e soprattutto personale.
Raul, secondo me, l’ha trovato affiancando da subito alla scultura anche la pittura e, curioso e sempre pronto a sperimentare, da qualche anno si cimenta anche nel tessere arazzi col metodo Gobelins. Intorno al duemila è entrato a far parte dello Studio 7 di Campi Bisenzio, gruppo artistico, che non svilendo il percorso autonomo ha come cardine fondativo la collaborazione fra i singoli componenti con il fine di creare opere in comune in un connubio di arte e alto artigianato che richiama, oltre i nostri cantieri e botteghe rinascimentali, anche l’Arts and Crafts preraffaellita.
Dovendo definire pittoricamente Raul, lo definirei un paesaggista, sui generis, ma paesaggista, pur sapendo che questa classificazione gli va stretta perché insieme alla definizione di Macchiaiolo fa storcere il naso ad alcuni addetti ai lavori, ma non è questo il momento della polemica.
Infatti, è bene ricordare che il paesaggio ha origini di alto lignaggio, già nel corso del Cinquecento, soprattutto in quello veneto è paritetico alla figura umana; diviene genere autonomo nel Seicento olandese e nella seconda metà dell’Ottocento assurge a sperimentazione di avanguardia con gli Impressionisti ed i Macchiaioli, poi, come tutte le avanguardie, esaurita la sua spinta polemico-sperimentale, si cristallizza in accademia. Non per questo è un genere da abbandonare a se stesso e, proprio gli artisti come Raul, hanno il merito di averlo tolto dalle secche post-macchiaiole e post-post-impressioniste e di riconsegnarcelo rivitalizzato, con innovazioni ed intuizioni che hanno, a livelli eccelsi, i loro antesignani in Piet Mondrian ed in Hans Hartung.
Mi si passino questi nomi, che sono solamente degli esempi, anche perché Raul non ha bisogno di essere accostato a nessuno né tanto meno impreziosito con nomi altisonanti, perché ha trovato un modo di esprimersi originale ed autonomo.
Le sue opere paesaggistiche si possono sommariamente dividere in suggestioni di paesaggio e paesaggi della memoria che l’artista esegue seguendo un iter lungo e laborioso. Inizia col mettere la prima impressione sulla carta attraverso piccoli disegni a matita, poi elabora lo schizzo in opere di medio-piccole dimensione, con i pastelli che gli consentono velocità esecutiva e resa morbida e soffusa. Solo successivamente riporta il tutto in opere medio-grandi eseguite con il colore ad olio e tempera, oppure tessute sul telaio in base alla necessità espressiva del momento.
Non sono opere di lettura immediata, infatti vanno ben osservate per essere apprezzate, in quanto dipinte con grande semplificazione formale che sfiora l’astrazione. Per eseguirle non occorre neanche recarsi en plein air perché non è necessario ricevere l’impressione dal naturale ma si può benissimo agire razionalmente estrapolando il dato naturalistico da una semplice foto.
L’artista, nell’eseguire le sue opere lo fa sfrangiando i contorni perimetrali che qua e là lasciano intravedere il fondo di preparazione, un fondo necessariamente nero perché sia che operi su carta che su tela sente il bisogno di usare questo colore come supporto. Infatti questo fondo, oltre ad influire sulla resa cromatica, se fatto affiorare in alcune parti dell’opera, le conferisce maggiore costruzione e maggiore forza espressiva. Questo metodo compositivo è così necessario all’economia delle sue creazioni che ha dovuto tesserlo anche nei suoi arazzi e, proprio in quello più grande, il nero ha funzione strutturale col compito di sorreggere tutta la composizione.
Questo modus operandi può avere una doppia lettura, può essere considerato, come espresso sopra, un rafforzativo alla composizione cromatica ma anche essere visto come una contaminazione, perché questa carie che intacca i piani ed i colori, col suo manifestarsi, va a minare l’apparente solidità compositiva dell’opera. Questa netta contrapposizione ha, però, una sua logica e deduzione, infatti l’essenza umana, apparentemente forte, solida e ben strutturata, ad una visione più attenta, ci rivela le sue lacune e le sue imperfezioni che sono proprie della natura stessa.
Le espressioni artistiche di Raul hanno come dote massima, il colore, un colore- luce vivo e sapientemente distribuito, dalle infinite sfumature dove i toni caldi contrastano con quelli freddi ed ogni colore ha il suo peso ben individuato ed analizzato nelle sue variazioni tonali che porta all’economia della stesura dei piani. Piani che si incastrano e si compenetrano in una sorta di sinfonia cromatica che, se anche obbligata dal pentagramma della costruzione geometrica, lascia squillare le note di un colore vivo ma mai strabordante, incastonato nella struttura con una purezza adamantina. Un colore che prevale sul segno subordinandolo ma non mortificandolo che nella sua preponderanza sfuma i contorni e ci invita a riflettere sulla labilità dell’esistenza.
Interessante il suo sviluppo tematico del quadro nel quadro eseguito, non come arricchimento compositivo, ma visto quale simbolo del viaggio, perché seguendo una ipotetica via, quello che fino ad un certo punto del percorso ci si parava come l’orizzonte, giungendovi, non diviene punto di arrivo ma tappa intermedia, aprendo nuovi orizzonti che alla loro conclusione ci mostreranno, a loro volta, nuovi scenari.
Ciò è metafora di una via Francigena interiore che, attraverso le sue soste transitorie ci porta a dipanare la nostra esistenza e tentare un’ascesi intellettiva quale compimento esaustivo del nostro essere.
Nella sua costante ricerca il punto più avanzato è dato dall’arazzo verde con la macchia gialla, vero paesaggio della memoria, perché sorvola sulle ali del ricordo le foreste della sua infanzia contraddistinte da un’infinita variazione di verdi intervallati a tratti dalla chioma gialla del guaiacan, albero tipico di quella regione.
Da ciò si evince che la forma comincia a stargli stretta infatti sta sperimentando una nuova semplificazione che lo potrebbe portare all’astrazione pura.