Da una libera conversazione di Enrico Guarnieri agli “Amici del Caffè Michelangelo”
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano!
(Carducci – “Davanti a San Guido”)
Due notizie di attualità artistica, entrambe solo per pura coincidenza provenienti a Parigi, mi offrono la ghiotta occasione per riflettere su antiche “questioni” assai complesse, diverse fra di loro ma generate da una stessa radice.
Una è afferente all’inizio del restauro, al Louvre, dell’opera “S. Anna” di Leonardo. Da subito questo restauro ha un acceso un animato dibattito, ma potremmo dire anche uno scontro, fra gli addetti ai lavori: favorevoli all’intervento su quel capolavoro da una parte e quelli contrari decisamente su un fronte opposto.
L’altra questione riguarda la periodica richiesta che i fiorentini rivolgono al Louvre per il prestito della “Gioconda” al fine di approntare una “giusta esposizione” a Firenze. Richiesta sempre negata.
Pur riconoscendo che, sia il restauro di opere d’arte come anche gli allestimenti di mostre, per lo più, sono stati in passato progettati ed eseguiti con scrupolo ed alta professionalità, sempre più spesso, nei tempi moderni, ci accorgiamo che certe iniziative sono guidate prevalentemente da scelte di immagine effimere, dal ritorno economico, dall’ostentazione di notorietà dei promotori, piuttosto che da veri contenuti culturali.
Purtroppo i versi del Carducci da me sopra riportati ci testimoniano che niente è cambiato: i “manzoniani” sono sempre in agguato per carpire incarichi e commesse… a cui noi possiamo aggiungere che nel nostro secolo questi problemi si sono acuiti ed ingigantiti!
Il punto di connessione fra i due temi/eventi può essere, appunto, individuata nella totale mancanza, nella nostra epoca, di quel “mos maiorum”, cardine filosofico-etico della civiltà romana praticato per quasi venti secoli, che prevedeva la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato a salvaguardia delle generazioni future, perpetrando quel vincolo di continuità fra le generazioni.
Con ciò non vorrei essere frainteso: certamente non nego che nel corso dei secoli i valori debbano restare congelati impedendo ogni evoluzione, ma certamente sarebbe stato opportuno conservare “il primato degli interessi della comunità sui singoli”.
“Gli Ateniesi mandarono a Delfi un ambasceria per porre una domanda al divo Apollo su quali riti sacri conservare. Eas quae essent in more maiorum” – quelli conformi ai comportamenti degli avi – ossia… attenetevi alla vostra tradizione. Non contenti, gli Ateniesi, poiché il costume degli antenati era mutato più volte nel tempo, chiesero una migliore formula e a quale fondamento etico si dovevano attenere. L’oracolo rispose secco: al migliore!” (Cicerone in De Legibus).
Certamente per i nostri avi “il migliore” inestinguibile era la liturgia pubblica! Quella che proprio manca oggi!
La “S. Anna” di Leonardo mi da l’incipit per parlare del pericolo di un restauro disinvolto ed opportunista innescato dalla sola ricerca del sensazionale trascurando il fondamento scientifico che dovrebbe preesistere ad ogni intervento di conservazione. La trascuratezza dello studio sulla fattibilità dell’intervento, potrebbe compromettere definitivamente e irreparabilmente l’opera, facendoci addirittura rimpiangere lo stato in cui versava prima dell’intervento stesso.
Purtroppo certi “restauri beceri” sono incoraggiati anche da alcuni musei acchiappa visitatori, talvolta con la complicità di sovrintendenti-manager colpiti dalla sindrome degli effetti speciali che non tollerano i toni smorzati e patinati, ma esigono colori vivaci e squillanti per attrarre il visitatore “chi che sia”, non importa se sprovveduto culturalmente. Se poi ci sono strascichi polemici, tanto meglio, si genera curiosità, immagine quindi afflusso che vuol dure “denaro”. E i contenuti culturali… e i “mos maiorum”? Tralasciamo!
Anche se far cassetta, talvolta, può essere un valido ausilio per la stessa attività culturale-museale, appare eccessiva la totale mancanza del “senso”.
Non consideratemi un conservatore, già nel mio intervento proprio su questo sito www.theprofessionalcompetence.it ho affrontato in chiave di modernità il problema della ri-sistemazione della facciata di San Lorenzo a Firenze ma avallare interventi per il solo gusto del risultato economico e di immagine trascurando i contenuti culturali e storici di un’opera d’arte è troppo! Propongo solo una via mediana: virtus in medio stat, il che vuol dire giusto equilibrio nel gestire i fattori. Formula ancor più necessaria quando si tratta di tradizione artistica!
Dunque, è giusto e corretto ripulire come anche restaurare ma rifuggiamo da quelle operazioni che esulano dalla conservazione come appunto lo “spellamento” “la ricostruzione” “il ri-coloramento”, infatti, così facendo, si cancellerebbero anche le ultime e più impalpabili velature alle quali era affidata la funzione di armonizzare cromaticamente tutta la composizione perché ogni intervento che apparentemente abbellisce a sua volta cancella la storia dell’opera stessa. La storia, appunto è mos, costume, contenuto etico!
A mio modo di vedere, e sono confortato dal fatto di non essere l’unico a pensarla così, ogni opera deve avere il diritto di invecchiare, proprio come un essere umano ha il diritto a progredire nel tempo, pur curato ed assistito, non deve essere violentato con lifting e protesi al silicone: tutti i segni sensibili debbano rivelarci l’azione creatrice del tempo!
Mi permette di esprimere il mio pensiero sull’inutilità di alcune mostre e sulla discutibile legittimità del possesso che vantano alcuni paesi di opere d’arte che identificano i “mores” di un altro popolo. I Francesi tengono in casa le ceneri dei nostri “lari” credendoli loro avi! Ma il solo possesso non vale titolo di proprietà e appartenenza etica!
Riconosco che il problema di innumerevoli nostri capolavori acquisiti più o meno lecitamente da altre nazioni è complesso e non si può liquidare con il “contentino” di una mostra come appunto quella di portare la Gioconda a Firenze.
Ma vi è di più: mi dichiaro nettamente contrario a queste operazioni di maquillage ed allo spostamento di delicati capolavori, infatti il trambusto di questa operazione, per quanta attenzione ci si metta, sottopone le opere ad un rischio attuale ed imminente e comunque le traumatizza sempre. Tutti rischi inutili ed improduttivi se non quelli di costruire profitto di immagine ai curatori, ai politici ai critici d’assalto. Per questa ragione andrebbero drasticamente ridotte le mostre temporanee.
Tanto per dare un contributo costruttivo e non proferire osservazioni generiche riassumerei ciò che accade oggi in materia di “mostre” in quattro categorie:
1) “Mostre d’avanguardia” per evidenziare e far conoscere i giovani talenti a un più vasto pubblico.
2) “Mostre antologiche” per riproporre validi maestri parzialmente dimenticati.
3) “Mostre collettive” di gruppi o di determinati periodi artistici, aperte alle comparazioni ed al confronto di stili e tecniche diversi fra loro.
4) “Mostre con autori o gruppi di artisti di gran moda” che rastrellano quasi tutto ciò che trovano a disposizione, quindi si allestisce l’evento con opere mediocri e scadenti ad eccezione di alcune “opere eccellenti” ma solo per fungere da specchietto per le allodole ed attirare turisti paganti sia l’ingresso alla mostra che consumatori per i contesti commerciali.
Tralasciando i primi tre classificati che comunque appartengono ad un’accettabile forma di comunicazione artistica e museale, mi vorrei soffermare proprio sul quarto esempio, che poi lo si può considerare comparato e parallelo a quanto abbiamo detto sopra in materia di restauro.
Le mostre acchiappa visitatori non educano il pubblico che le visitano, anzi lo confondono poiché le opere di maniera, quelle fiacche e seriali, si fanno assurgere a “fonte primaria di comunicazione.
Addirittura, spesso, queste mostre d’occasione commerciale sono correlate da cataloghi ben definiti fotograficamente e ben conditi da critica “compiacente” che non fanno altro che accrescere la disinformazione e sicuramente non sono didattiche né formative…tanto meno “formative”!
Direi che in questo tipo di epifanie artistiche manca l’elemento essenziale che dovrebbe caratterizzare un’operazione culturale, ossia la motivazione, quel tanto di stimolo necessario per indurre il visitatore, attraverso quello spaccato d’arte, a porsi delle domande, ad incuriosirsi e creare così il presupposto a maggiori approfondimenti e contribuendo così ad una crescita culturale.
Vorrei far notare che oggi troppo spesso si lega l’effetto mostra al “business”, ma a mio modo di vedere non è così: si possono mettere in piedi con cifre modeste grandi eventi purché lo scopo sia prevalentemente quello educativo, didattico e culturale.
Vorrei sfidare “i professionisti del business allestendo una mostra con due sole opere, una “Natura Morta” di Morandi e “Soldati Francesi” del 1859 di Giovanni Fattori. Sono sicuro che riuscirei a creare un interesse e ad approfondire il confronto stilistico fra i due artisti, rinunciando volentieri anche al tanto ambito “fattore numerico” dei tanti visitatori.
Vorrei essere più esaustivo e critico in merito a questo prevalere dell’economia sulla cultura:
i film di oggi per esempio, più approfittando di un’evoluzione della tecnica fotografica, denotano una estrema carenza in quanto a sceneggiatura e contenuti didascalici; vi è di più, dai media televisivi è quasi scomparsa la riproduzione di film storici che hanno fatto fonte di stile e di cultura oltre che storia della letteratura dell’immagine. Quando mai si possono rivedere opere di Fellini, Pasolini, Rossellini, Visconti, Vittorio De Sica ecc., magari preceduti da una dotta presentazione? Eppure questi maestri ci hanno fatto grandi nell’universo mondiale della cultura e per questo ancora oggi l’italianità nel mondo è un valore… anche commerciale! Ma soltanto dopo, prima di tutto è stato un fenomeno di “stile culturale”!
Vorrei concludere questa riflessione in libertà affrontando la questione della legittimità del possesso di nostre opere da parte di alcuni musei di altre nazioni, opere trafugate, non legittimamente acquistate. E’una cosa che mi rende veramente avvilito e furibondo allo stesso tempo.
Riconosco che è una questione già da tempo posta ma dobbiamo riconoscere mai risolta. Ammetto anche che i trafugamenti, bottini di guerra e le acquisizioni dubbie sono comuni a ogni popolo, anche noi forse non ne andiamo esenti, ma dovremmo riflettere sul rapporto che ogni opera d’arte ha con il territorio, la società ove è stata prodotta. Certe opere rappresentano non un contorno di colore, tempo, spazio e materia ma piuttosto l’anima di una nazione, di un popolo e di un’epoca. Allora, tralasciamo il dibattito se queste opere debbano essere restituite o no, ma perlomeno in un odierno contesto culturale globalizzato e che varca i confine degli stati dobbiamo rivendicare che queste opere, in senso intrinseco nostre, debbano avere la contestualizzazione che è loro propria: forse così facendo promoveremmo quell’immagine” Italia” che i soli uomini del business artistico non riescono a fare.
E’ un’utopia? No! E’ una giusta contestualizzazione anche per comprendere i valori simbolici delle opere stesse.
Per esempio, nella Pala Ognissanti di Giotto, si può ammirare con quale maestria siano stati dipinti gli intarsi marmorei del trono di Maria che trovano il loro corrispettivo in quelli reali del Campanile di Giotto e del Battistero. Progetto di comunicazione oltremodo naturale: tutte le opere pittoriche e scultoree rinascimentali trovano il loro completamento nell’architettura cittadina anche se modificata e manomessa.
E’ vero che per studiare in modo completo il Rinascimento e il Barocco è indispensabile recarsi anche a Parigi, Londra e New York, però, sarebbe altrettanto interessante recarsi in quelle città anche e soprattutto per vedere e cercare di comprendere le loro molteplici espressioni artistiche autoctone. Infatti quelle splendide città, uniche ognuna nel suo genere, potrebbero fare benissimo a meno dei frutti della nostra cultura approdati a loro attraverso un collezionismo avido ed egoistico iniziato alla metà del Settecento e snodatosi attraverso tutto l’Ottocento e il Novecento.
Per esempio, dopo aver ammirato gli Impressionisti all’Orsay di Parigi ritroverei il loro spirito nei grandi boulevard e sui lungo Senna ed il fermento di quella grande città mi ricorderebbe la frizzante e vivace “opera degli impressionisti”. Idem a Londra dove ammirando i quadri di Turner e le sue nebbie, le troverei riproposte “al vero” lungo il Tamigi e percepirei lo spirito preraffaellita nelle severe architetture vittoriane.
Quindi, concludendo, smettiamo di piagnucolare e di elemosinare il prestito della Gioconda e di altri capolavori trafugatici da Napoleone o da Hitler o Cecco Beppe, piuttosto, mostrando quella dignità e fierezza di chi ha la consapevolezza di avere espresso quegli stessi capolavori, esigiamo la giusta contestualizzazione di appartenenza culturale e non di mera provenienza geografica.
Operazione a costo zero e di vero stile italiano. Un moderno “dolce stil nuovo” a modo nostro!